Recensioni Reviews
Scheda
Soggetto:
Arthur L. Kopit, Maury Yeston
Sceneggiatura:
Anthony Minghella, Michael Tolkin
Regia:
Rob Marshall
Prodotto da:
JOHN DELUCA, RYAN KAVANAUGHR, ROB MARSHALL, MARC PLATT, HARVEY WEINSTEIN PER LUCAMAR PRODUCTIONS
Distribuito da:
01 Distribution
Edizione italiana:
TECHNICOLOR spa
Dialoghi italiani:
FRANCESCO VAIRANO
Direttore del Doppiaggio:
FRANCESCO VAIRANO
Assistente al doppiaggio:
TECHNICOLOR spa
Fonico di doppiaggio:
Vincenzo Mandara
Fonico di mix:
Gianni Pallotto
Voci:
Daniel Day-Lewis:
Pierfrancesco Favino
Penélope Cruz:
Rossella Acerbo
Marion Cotillard:
Claudia Catani
Sophia Loren:
Sophia Loren
Nicole Kidman:
Chiara Colizzi
Judi Dench:
Marzia Ubaldi
Kate Hudson:
Stella Musy
Fergie:
Antonella Alessandro
Elio Germano:
Elio Germano
Ricky Tognazzi:
Ricky Tognazzi
Giuseppe Cederna:
Giuseppe Cederna
Roberto Nobile:
Roberto Nobile
Andrea Di Stefano:
Andrea Di Stefano
Remo Remotti:
Remo Remotti
Valerio Mastrandrea:
Valerio Mastrandrea
Martina Stella:
Martina Stella
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dialoghi italiani |
2,5 | |||
direzione del doppiaggio |
3 | |||
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Gli statunitensi, si sa, sono un popolo particolare: nato dall’emigrazione della “peggiore” (o quasi) Europa, son riusciti con molta fatica a conquistare il mondo. Economicamente, militarmente, culturalmente. Ed è in genere in periodi come questo, di grande crisi (su tutti e tre i fronti) che tirano fuori le idee migliori per risollevarsi e fare grandi balzi in avanti. Ma non tutte le donuts riescono col buco. Infatti, questo film che tenta di scimmiottare un modello di pensiero europeo, è più che altro un sobbalzo estetico, o almeno questo provoca nello spettatore italiano. Il film di Marshall è un frullatore senza coperchio - quello del pudore - che schizza fuori colori, coreografie, movimento e cazzate. Perdonate il termine, ma quando ci si affanna a dire che Nine non vuole essere un rifacimento, semmai una timida ispirazione all’otto e mezzo felliniano, già si dice una bugia. Un film che ti fa rabbrividire per l’imbarazzo, per il suo essere pathetic, e provinciale.
Non ho visto il musical, cui davvero dovrebbe ispirarsi il musical-movie (genere che forse ci piace nel rocky horror, nel grease per i più impomatati, ma che insomma...noi europei campiamo d’altro...), i cui richiami, gli accenni, le trasposizioni non posson far pensare che immediatamente al film di Fellini. E vien da dire: yankee, go home killing 4 your damn oil!
Le donne son trattate malissimo: ammenicolo d’accompagnamento per stalloni ben vestiti.
E sappiamo cos’erano per Fellini.
L’infanzia come manciata di ricordi cui strizzare l’occhio.
E sappiamo cos’era per Fellini.
L’ispirazione o la mancanza d’essa come se fosse un “mood” relazionale.
E sappiamo cos’era per Fellini.
E poi i clichè sull’italianità.
Una caduta di stile sulla cristianità, risollevata dal buffo Remo Remotti (che passa però dal fare discorsetti ai giovani lottatori della Sapienza romana a fare comparsate del genere in film del genere). La volgarità di certi balletti espliciti nel loro richiamo sessuale senza alcuna necessità di farlo. La banalità delle canzoni (sia nei testi scritti, sia per i temi musicali). La semplicità stucchevole delle chiacchiere che i protagonisti riescono a compiere: tra una sculettata danzerina e uno scorcio su ricostruzioni di ambienti d’epoca qualche parola se la dicono.
Nella versione italiana le canzoni sono lasciate in originale, aumentando e condensando così lo straniamento, mentre per le sequenze dialogiche gli attori doppiatori ci provano pure a dare un senso espressivo ai personaggi: ci provano, soprattutto il buon Favino e coloro che doppiano se stessi. Il protagonista infatti poteva essere molto più insopportabile di come invece non risulti. Per gli altri, soprattutto il cast femminile, paga il fatto di trovarsi davanti un film che stronca il loro tentativo in partenza. Insomma, gli attori originali non offrono grandi interpretazioni, i discorsi sono insulsi e banali, piatti e troppo americani.
Come si poteva chiedere in fase di adattamento dialoghi (salvo una maggiore accuratezza nel sinc) e doppiaggio di più? Si doveva chiedere agli attori di mettersi in sala doppiaggio a far balletti anche loro? Un poco più di inventiva ci voleva: per esempio negli scambi Judi Dench-Daniel Day Lewis, caricabili di maggior ironia piuttosto che maggior profondità negli scambi tra il protagonista e sua moglie.
Ma forse una cosa si poteva chiedere a chi ha lavorato sulla versione in italiano, di organizzare una proiezione collettiva del film di Fellini e provare a trarne, così, un po’ di ispirazione? Magari poteva migliorare, di poco almeno, la versione italiana di questo musical, perfezionando l’inganno. Ma forse a quel punto chi doveva adattarlo, dirigerlo e doppiarlo, si sarebbe rifiutato di farlo. Perché forse dei valori e degli ideali nel mondo del doppiaggio sopravvivono, vivaddio.
E questo è sicuro tanto quanto che certe produzioni non meritano davvero di essere trattate con l’arte certosina dell’adattamento e del doppiaggio. Anzi, diciamolo, questo è probabilmente il primo caso di un doppiaggio danneggiato dal film.
Guido Anselmi
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