Recensioni
Reviews
Scheda
Soggetto:
Nic Pizzolatto
Sceneggiatura:
Nic Pizzolatto
Regia:
Cary Joji Fukunaga
Prodotto da:
HBO
Edizione italiana:
Studio Emme
Dialoghi italiani:
Barbara Bregant, Federico Nobili
Direttore del Doppiaggio:
Rodolfo Bianchi
Assistente al doppiaggio:
Francesca Rizzitiello
Fonico di mix:
Fabio Cuturi
Trasmesso in Italia da:
Sky Atlantic, Cielo
Voci:
Matthew McConaughey:
Adriano Giannini
Woody Harrelson:
Pino Insegno
Michelle Monaghan:
Francesca Fiorentini
Michael Potts:
Massimo Bitossi
Tory Kittles:
Davide Albano
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dialoghi italiani |
2 | |||
direzione del doppiaggio |
3,5 | |||
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Vedendo True Detective, uno che abbia ancora qualche dubbio si convince definitivamente che se le serie americane hanno successo e quelle italiane no una ragione c’è.
Mentre qui, infatti, si continua a raschiare il fondo dei ruoli delle forze armate, propinandoci i soliti gialletti fini a se stessi, che neanche in presenza di un prete affrontano temi più alti della ricerca del colpevole, Hollywood sforna serie in cui l’ambientazione - qui il poliziesco, la mafia nei Soprano - è solo il pretesto narrativo per parlare d’altro, ovvero dell’uomo e del mondo che si è costruito.
Forse è semplicemente questo: in Italia sceneggiatori e registi sono in grado (o è la sola cosa che gli viene chiesta) di narrare per immagini solo gli estremi del comico o del melodramma, navigando incerti e malcerti nella gamma intermedia che nasconde la vera tragedia, che è poi la vita vera.
Sarà quindi il caso di accantonare i proclami ideologici sul dominio di Hollywood e le crociate contro i prodotti americani rei di volerci culturalmente condizionare, per goderci - se è possibile usare questo termine - True Detective, calandoci nell’inferno che Nic Pizzolatto costruisce usando il contrappunto tra l’incubo personale e privato di due poliziotti e l’incubo collettivo di una società, che è poi solo la somma di una serie di incubi personali.
Ecco, questa è filosofia.
Perciò, visto che siamo in vena, fermiamoci anche a riflettere sulla pretesa superiorità della “vecchia Europa” e, mentre aspettiamo con ansia la seconda serie, pensiamo se non sia il caso di rivalutare quegli 11 milioni di americani che hanno visto le singole puntate della prima.
Per venire al doppiaggio, Rodolfo Bianchi ha messo insieme un buon cast, a partire da Pino Insegno, non troppo gigione e quindi assai credibile, su Marty-Harrelson. Qualche riserva su Massimo Giannini, che a mio parere carica l’interpretazione di Rust-McConaughey di un’enfasi francamente eccessiva e in fin dei conti controproducente: la forza del personaggio è nei contenuti più che nella forma, e la carica dirompente di alcune sue battute sarebbe stata sicuramente esaltata da una interpretazione più asciutta e meno compiaciuta.
Per venire ai dialoghi, la parola che li definisce meglio è: inesperti. Mentre si apprezza lo sforzo di Bregant e Nobili di rendere al meglio le pillole di filosofia di Rust, appena la tensione si allenta e si va sul “facile”, il livello cala inesorabilmente e appaiono costruzioni linguistiche astruse, spesso ricalcate sull’originale, come la «pensione psichiatrica», ed espressioni lasciate senza ragione in originale, come «task force» ripetuto alla nausea e, peggio, l’incomprensibile e immotivato, e pure molto ripetuto, «debriefing» per dire semplicemente riunione.
Giovanni Rampazzo
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